La bibbia? È donna di A.Esposito

Alessandro Esposito *
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L’eredità di Eva, di Umberto Veronesi e Mario Pappagallo (Sperling & Kupfer; Milano, 2014), è un testo al contempo lodevole ed ambizioso circa la finalità che persegue: restituire voce e volto ai personaggi femminili della bibbia, riscattando il loro profilo indomito e audace. Due le sezioni principali in cui il testo si articola: la prima, più ampia, è dedicata alle figure femminili dell’antico testamento; la seconda, più esile, mette a fuoco la scarsa rilevanza che le donne, a giudizio degli autori, rivestono nel nuovo testamento e, di conseguenza, nella chiesa cristiana post-nicena. Seguo pertanto la suddetta articolazione nelle mie brevi note critiche al testo.

Il libro si apre con una suggestiva analisi della figura di Eva, rileggendo il suo gesto in chiave innovativa: cogliendo il frutto interdetto all’essere umano dal comando divino, la donna è colei che si lascia guidare dal desiderio di sapere che, come tale, richiede la capacità di trasgredire; «la trasgressione – sottolineano gli autori – è il fondamento della scienza» (pag. 3). Lettura decisamente intrigante e convincente, da contrapporre con decisione all’ermeneutica religiosa tradizionalista, la quale da sempre fa leva su un’interpretazione negativa e colpevolizzante della disobbedienza (rigorosamente declinata al femminile) al divieto divino.

Terminato l’approfondimento della figura di Eva e del suo gesto audace, il libro passa in rassegna numerosi personaggi femminili, offrendo una panoramica assai vasta, la cui completezza, però, va a discapito dell’approfondimento. Pur trattandosi, difatti, di una galleria decisamente ricca, il limite dell’approccio scelto dagli autori risiede nello spazio eccessivamente scarno concesso all’esegesi dei testi che, preceduti da una breve presentazione tematica, vengono spesso solamente elencati. A giudizio di chi scrive si sarebbe potuta rivelare più proficua la scelta di concentrarsi su meno figure, approfondendone maggiormente i tratti e la storia.

A tale limite metodologico se ne aggiunge uno squisitamente tecnico: nell’insieme, difatti, il testo utilizza una chiave di lettura scientifica per episodi che andrebbero letti a partire da un approccio distinto. Mi riferisco, in particolare, al linguaggio del mito che, come tale, non è riconducibile tout court allo stadio infantile della psiche umana o dell’antropologia religiosa.

Più che dalla detimitizzazione bultmaniana, difatti, si potrebbe trarre profitto dalla reinterpretazione del linguaggio mitico, sulla falsa riga delle indicazioni fornite in tal senso da Karl Jaspers o da Paul Ricoeur.[1] Riporto, a tale proposito, le parole del filosofo Luigi Pareyson che ritengo possano chiarire meglio i termini del mio rilievo critico:

«Chi volesse insistere a demitizzare il pensiero rivelativo, si ritroverebbe di fronte al vano dilemma di scegliere tra un precario razionalismo e un equivoco irrazionalismo (…) Logo e mito hanno funzioni diverse, sì che il primo non può sostituire il secondo, né il secondo può essere considerato come una forma inferiore del primo».[2]

Questo spessore di significato che il linguaggio rivelativo del mito racchiude e sprigiona non viene rinvenuto dagli autori, che accostano i testi biblici mediante una chiave ermeneutica che, in ultima analisi, non si rivela capace di scandagliarli in profondità.

Per quel che riguarda le pagine dedicate alle figure femminili neotestamentarie, diversi sono gli aspetti apprezzabili: dal ricorso esplicito alla letteratura apocrifa, all’excursus storico relativo allo sviluppo del culto mariano in seno all’incipiente cattolicesimo, sino alle serrate e documentate critiche all’etica perbenista che connota il tradizionalismo cristiano. Anche a tale proposito, però, il lavoro sulle fonti si sarebbe potuto svolgere in maniera più critica ed esauriente: il che avrebbe impedito alcune sviste significative, analoghe, per certi versi, a quelle giustamente rilevate nella vulgata cattolica (che, come gli autori sottolineano opportunamente, identifica in maniera del tutto impropria Maria di Magdala con la donna salvata da Gesù dalla lapidazione in Giovanni 8 o con la donna che lava i piedi di Gesù e li asciuga con i propri capelli in Luca 7: entrambe, in effetti, tesi prive di fondamento dal punto di vista documentale).

Alla stessa stregua, non si può affermare, come fanno gli autori, che l’apostolo Giovanni si trovasse sotto la croce al momento in cui tale pena capitale fu inflitta ai danni di Gesù (affermazione riportata a pag. 135 del libro):

e questo per il semplice fatto che il vangelo giovanneo menziona a tale proposito soltanto la figura di un discepolo amato (mathetén ón egápa), che durante tutto lo scritto rimane (intenzionalmente) anonimo; mentre i sinottici, dal canto loro, affermano concordemente che soltanto alcune donne osservavano l’evento da lontano (e questo sì sarebbe stato un tema tutto “al femminile” assai interessante da sviluppare). Allo stesso modo non è possibile affermare riguardo a Maria di Magdala che «sicuramente presente all’ultima cena, viene volutamente confusa con il giovane Giovanni» (così il libro a pag. 125) poiché, una volta ancora, si tratta di un’affermazione che non trova alcun riscontro nelle fonti documentarie a nostra disposizione.

Si poteva inoltre essere più incisivi nel rilevare accenni di maschilismo nelle fonti neotestamentarie operando un distinguo tra la teologia gesuana e quella paolina: è nell’epistolario attribuito al discepolo di Tarso, mai citato dagli autori, che si possono difatti rinvenire i germi di una certa misoginia nel cristianesimo primitivo. Anche tale ambito, invece, rimane purtroppo inesplorato nel testo.

Ultimo limite rilevabile per ciò che attiene al libro nel suo complesso è l’assenza di rimandi alla ricca bibliografia che gli studi di genere hanno prodotto in questi ultimi decenni riguardo al tema «donne della (e nella) bibbia»:[3] se ci si cimenta con il tema, si tratta di riferimenti imprescindibili.

Ciò detto, non si intende in alcun modo sminuire la rilevanza degli accenni del tutto pertinenti e condivisibili che gli autori fanno al corpo femminile e alla sua piena dignità, così come non si può non concordare circa l’auspicio, da essi espresso nelle conclusioni, relativo al pieno riconoscimento di una «nuova genitorialità (…) non strettamente legata alla biologia» (pag. 146).

Nell’insieme, dunque, una lettura piacevole, facilitata dallo stile fresco e colloquiale opportunamente scelto dagli autori. Unico rammarico, ribadisco, il mancato approfondimento di molti degli interessanti spunti di riflessione che, sia pure appena in nuce, il testo offre ai lettori.

* pastore valdese in Argentina

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NOTE

[1] Riporto, a titolo esemplificativo, due testi fondamentali degli autori menzionati: Karl Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Longanesi, Milano, 1970; Paul Ricoeur, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia, 1983
[2] Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1971 (cit. pp. 28-29)
[3] Riferendomi qui soltanto alla letteratura reperibile in lingua italiana, mi limito a menzionare i nomi di Elizabeth Green, Lidia Maggi, Elisabeth Shüssler-Fiorenza, Rosemary Radford Reuther, Serena Noceti e Marinella Perroni.