No! Sono divorziato di P.Durantini

Pierstefano Durantini
www.adistaonline.it

Il tema dei separati e divorziati all’interno della Chiesa cattolica è ultimamente molto dibattuto perché con l’avvento del pontificato di Bergoglio pare si siano aperti spiragli per questi credenti che vivono un dramma interiore personale di non poco conto e che li fa sentire una sorta di fedeli di serie B, visto che non è consentito loro avvicinarsi al sacramento della confessione e dell’eucarestia se risposati o conviventi more uxorio.

Le aperture di papa Francesco in merito sono note, ma c’è una fronda di cardinali legati alla tradizione, quindi meno progressisti, che non vede di buon occhio certe sue affermazioni che fanno prevedere prossime e attese aperture in merito.

I recenti lavori del Sinodo sulla famiglia, la cui assemblea ordinaria dei vescovi si svolgerà nel prossimo autunno, non hanno apportato novità di rilievo o almeno non quanto si sperava, ma il momento è sicuramente buono e fecondo per eventuali cambiamenti, quindi il papa andrebbe sostenuto in questa sua germinante opera di apertura.

È facendo queste riflessioni che personalmente ho deciso, nel mio piccolo, di dare un segnale. Sono separato dal 2003 e divorziato dal 2007, ho una figlia di 19 anni che vive con me da sempre e, avendo sempre creduto nel primato della coscienza personale, in passato nonostante tutto ho fatto la comunione, decidendo di prendermi le mie responsabilità direttamente con Dio, anche dopo essermi confrontato con vari presbiteri e con amici del gruppo romano di Noi Siamo Chiesa di cui faccio parte.

Ma in quest’anno che precede il Sinodo sulla famiglia ho pensato di fare in maniera diversa e di dare una testimonianza ufficiale della mia situazione, cosiddetta irregolare. Prendendo spunto da quanto letto alcuni mesi fa proprio su Adista in merito a un gruppo di fedeli francesi che, in solidarietà con quanti non potrebbero avere accesso all’eucaristia, hanno deciso di rifiutarsi di fare la comunione dopo essere giunti al cospetto del prete, ho deciso di fare altrettanto (v. Adista Notizie n. 41/14).

Quindi la scorsa domenica durante la messa – ero dalla mia compagna a Canale Monterano nei pressi di Roma – al momento dell’eucarestia mi sono messo in fila con gli altri fedeli e una volta giunto davanti al prete che mi porgeva l’ostia consacrata ho detto: «No! Sono divorziato», poi mi sono girato e sono tornato al mio posto, lasciando il pastore abbastanza interdetto.

Ritengo questo mio comportamento un modo per uscire dall’anonimato delle sagrestie, dove spesso la gerarchia della Chiesa relega i divorziati. Credenti che, in teoria sono accolti nella misericordia di una Chiesa che si proclama madre, ma che poi nella realtà dei fatti vengono giudicati, rifiutati e in pratica messi da parte da quella stessa Chiesa che quindi si trasforma in matrigna. Ecco allora la genesi del mio piccolo gesto, solamente una testimonianza per dire che ci siamo anche noi, credenti divorziati.

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Divorziato, risposato, comunicante. Una testimonianza

Valentino Bobbio
http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it

Gentile Sandro Magister,

la mia dolorosa e faticosa esperienza personale – oltre che la riflessione sui testi pubblicati sul suo blog – mi porta a condividere le fini e documentate argomentazioni di Guido Innocenzo Gargano nell’intervento su “il mistero delle nozze cristiane”, ed a concordare con il suo approccio, che unisce alla giustizia di Dio la misericordia, ed anzi ci ricorda che quest’ultima connota tutto l’insegnamento di Gesù, che la fa sempre prevalere sulla legge.

Il mio primo matrimonio, con una donna di grande valore e fede, è stato una sofferenza indicibile, fatta di incomprensioni continue e profonde. Dieci lunghi anni di dolore, rifiuto e torture psicologiche, anche se con la gioia di due splendidi figli. Innumerevoli i tentativi di risanare il rapporto con l’aiuto di psicologi, sacerdoti ed amici. La verifica del processo di nullità del matrimonio mi aveva fatto rinunciare, perché le modalità mi parevano offensive per mia moglie. Ero talmente distrutto che pensavo fosse impossibile un rapporto sereno e di condivisione tra uomo e donna.

Poi ho incontrato Francesca, mia moglie attuale: ero spaventato, tendevo a fuggire e attendevo spaventose tempeste che non sono mai arrivate. Ogni giorno sereno, di dialogo e condivisione mi pareva un miracolo unico destinato, immaginavo, a finire nella tragedia. Invece sono passati venticinque anni bellissimi di crescita insieme. In un clima di sostegno reciproco, rispetto e fiducia, abbiamo una casa aperta agli amici ed alle persone che hanno bisogno, e a cui Francesca è di grande conforto. Abbiamo un altro figlio, ma anche i due altri figli della mia ex moglie sono quasi nostri figli, ed i cinque fratelli vengono sovente, ancora adesso che sono grandi, tutti insieme in vacanza con noi.

Il mio confessore, don Arturo Ferrera che aveva seguito anni di tormenti e dolore – un grande biblista che aveva studiato al Capranica, emarginato a suo tempo dal cardinale Siri (quando poi, lasciato il ruolo di arcivescovo, don Ferrera andava a trovarlo, si chiedeva: “Perché vieni a trovarmi tu che avevo messo da parte e non vengono gli altri, che erano di mia fiducia e che ho fatto crescere?”) –, quando ho conosciuto Francesca mi ha detto: “Ora basta, approfondisci seriamente il rapporto con lei: nella Chiesa orientale è consentito un secondo matrimonio, in tono minore” e mi ha invitato a continuare nell’impegno ecclesiale e nell’eucarestia. Francesca è buddista, ma don Ferrera mi ha confortato, e confermo che la sua fede costituisce un grande valore e un’occasione importante di approfondimento e di intesa.

Anche la mia ex moglie, risposata civilmente come me, svolge il ruolo di catechista e di animatrice in parrocchia e suo marito è diventato anche lui studioso di teologia, molto impegnato. Abbiamo avuto tutti la fortuna di trovare comunità ecclesiali accoglienti ed inclusive, che ascoltano e cercano di capire i problemi, evitando di giudicare il cuore ed il comportamento delle persone, rispettose della coscienza e delle faticose e dolorose esperienze.

Non cambia la nostra visione della famiglia: l’attenzione, il desiderio di comunione vanno coltivati in una prospettiva di fedeltà al progetto comune, consapevoli delle nostre fragilità e limitatezze, e questo richiede impegno e indubbio superamento di ostacoli.

Purtroppo non hanno trovato comunità accoglienti e, direi profondamente ispirate e permeate dal Vangelo, sia quell’amico ginecologo che, avendo rifiutato di fare obiezione di coscienza per mantenere un dialogo credibile e non settario con le sue pazienti (pur essendo riuscito a non fare aborti), è stato cacciato dalla Chiesa; e così pure quel nostro amico gay che si è sentito giudicato, disprezzato, respinto e buttato fuori dalla Chiesa.

Dobbiamo veramente come comunità ecclesiali convertirci al Vangelo superando le nostre paure e timori (quelli che rendevano così rigidi e chiusi i farisei) e ricordarci, come ci dice padre Gargano, che la Nuova Alleanza proposta da Gesù è fondata non più sulla legge, ma risiede nel cuore. La Chiesa, egli ci ricorda, ha sempre affermato il primato della coscienza (il che non toglie che molto spesso non lo abbia rispettato, compiendo misfatti ed efferatezze), perché il giudizio sulle cose interne appartiene solo a Dio, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45). E Gesù non è venuto per condannare il mondo, ma per salvarlo (Gv 12, 47), perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati (Mt 9, 12). Infatti la Chiesa, ricorda padre Gargano; ha sempre ritenuto suo compito formare le coscienze, rispettando comunque l’autonomia del foro interno, fino al paradosso che, anche nei momenti più bui dell’inquisizione, la Chiesa condannava il comportamento esterno (e purtroppo quindi il corpo), lasciando alla misericordia di Dio la valutazione della coscienza e delle motivazioni dei condannati.

L’insegnamento della Chiesa orientale, sempre molto attenta a rispettare l’annuncio evangelico, legge le parole di Gesù sul matrimonio con più misericordia e in modo meno formale e meno giuridico, con meno paure rispetto alla nostra Chiesa ed a molte nostre comunità ecclesiali.

La fede ci deriva, e viene rafforzata, dalla testimonianza e dall’attenzione alla persona che viviamo nelle nostre comunità (Dio non ha mani, ha solo le nostre mani, dice una preghiera fiamminga; San Francesco diceva: Signore fai di me uno strumento della tua pace). Quante persone perdono la fede perché isolate e perché la loro comunità non le ascolta, non le capisce, ma, piena di paure le giudica e le condanna?

Credo proprio che il Dio della vita, come dice padre Gargano, abbia l’obiettivo di portare l’uomo, tutti gli uomini, “alla pienezza della vocazione originaria”, ossia alla pienezza di una vita di relazioni profonde, di comunione e di rispetto reciproco, e questo è quello che ci insegna la nostra Chiesa che vogliamo costruire come comunità inclusiva e accogliente.