Che Romero resti segno di contraddizione. Critiche alla cerimonia di beatificazione di C.Fanti

Claudia Fanti
Adista Notizie n. 21 del 06/06/2015

Con la cerimonia di beatificazione di Oscar Romero, lo scorso 23 maggio, è finalmente giunta a conclusione, come ha evidenziato il postulatore della causa di canonizzazione mons. Vincenzo Paglia, la messa interrotta (dal proiettile di un cecchino) il giorno del suo martirio e quella interrotta (dalla violenza del regime di destra, sostenuto da Stati Uniti e Vaticano) il giorno del suo funerale. Ma sono in molti a dubitare che fosse questo l’epilogo che era bene augurarsi. Perché, ascoltando le parole pronunciate dal card. Angelo Amato durante l’omelia – e molte altre espresse da più parti prima, durante e dopo la cerimonia del 23 maggio a San Salvador – è davvero legittimo domandarsi se sugli altari sia finito davvero San Romero d’America. Perfettamente in linea con lo slogan scelto per la beatificazione, un puro concentrato di irenica genericità e interessata astrattezza – “Romero, martire per amore” –, Amato ha descritto l’arcivescovo come «un sacerdote buono, un vescovo saggio, ma soprattutto un uomo virtuoso» che «amava Gesù e lo adorava nell’eucarestia», «venerava la Santissima Vergine Maria, amava la Chiesa, il papa e il suo popolo». E ancora: «Romero non è un simbolo di divisione, ma di pace, di concordia e di fraternità», tanto più che «la sua opzione per i poveri non era ideologica, ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori». Cosicché l’auspicio è «che il suo martirio sia una benedizione per El Salvador, per le famiglie, per i poveri e per i ricchi (sic!). Per tutti quelli che cercano la felicità». Neppure poteva mancare il «Romero è nostro» di wojtyliana memoria, benché addolcito da un successivo «ma anche di tutti. Per tutti è il profeta dell’amore di Dio e dell’amore per il prossimo».

Di concordia e riconciliazione ha parlato anche papa Francesco, nella sua lettera all’arcivescovo di San Salvador mons. José Luis Escobar Alas – letta dinanzi agli oltre 300mila partecipanti alla cerimonia –, ma auspicando che quanti invocano mons. Romero e ammirano la sua figura «trovino in lui la forza e il coraggio per costruire il Regno di Dio e impegnarsi per un ordine sociale più equo e degno»: Romero, ha evidenziato, «ha saputo vedere e ha sperimentato nella sua stessa carne “l’egoismo che si nasconde in quanti non vogliono cedere ciò che è loro perché raggiunga gli altri”. E, con cuore di padre, si è preoccupato delle “maggioranze povere”, chiedendo ai potenti di trasformare “le armi in falci per il lavoro”».

Come Gesù

Se, invitando all’unità, alla riconciliazione, alla concordia tra ricchi e poveri, si pensava di cancellare ogni segno di contraddizione, l’operazione è decisamente fallita. Voci critiche si sono sollevate contro una beatificazione che, scrive Roberto Pineda (Alai, 19/5), mira a togliere Romero «dal rumore della strada, per collocarlo nel silenzio della Chiesa», secondo la condotta tradizionalmente seguita con i ribelli, a cominciare dal primo di tutti loro, Gesù di Nazareth: «Un grandioso spettacolo mediatico-religioso» finalizzato ad «addomesticare la figura di Monsignore, riconducendola all’ovile della tranquillità e dell’ordine, seppellendo politicamente una volte per tutte il vescovo ribelle della cattedrale». Una beatificazione giunta tardi e celebrata male – denuncia un comunicato diffuso da diverse realtà ecclesiali latinoamericane (Redes Cristianas, 24/5) – avendo privilegiato «simboli elitari e di potere che non hanno nulla a che vedere con la vita e l’opera di mons. Romero» ed emarginato il popolo dalla celebrazione: quel popolo ridotto ai 1.400 invitati speciali alla cerimonia sotto l’etichetta “Poveri, Contadini” (poi, in seguito alle polemiche, sostituita con quella di “Pastorale sociale”), a fronte di una nutrita presenza dei prìncipi della Chiesa e del mondo, tra cui ha trovato posto persino Roberto D’Aubuisson, figlio dell’omonimo mandante dell’assassinio di Romero, insieme a diversi esponenti di quella destra che pure non aveva esitato a inviare propri rappresentanti in Vaticano per cercare di bloccare il processo di canonizzazione. Una beatificazione accompagnata, si legge ancora nel comunicato delle associazioni, dalla «cancellazione sistematica della sua memoria sovversiva, della memoria sovversiva della Chiesa dei poveri»; dai tentativi di diluire «la forza e la radicalità» del significato del martirio di Romero, il quale «non è morto per odio della fede o semplicemente per amore, come pretendono i settori conservatori della Chiesa cattolica», ma è stato «assassinato per la sua fede socialmente e politicamente impegnata, per la sua opzione per i poveri e per la sua denuncia dell’ingiustizia che smascherava la nuda realtà delle dittature militari in America Latina e la complicità con queste di molti settori, Chiesa compresa». Cosicché «la sua morte assomiglia, come poche altre nella storia della Chiesa, a quella di Gesù, per le sue cause sociali, politiche ed economiche». L’attualità di Romero, conclude il comunicato, «è indiscutibile: riflette l’attualità della Chiesa dei poveri e della Teologia della Liberazione».

Un beato politicamente scorretto

Ma è stata addirittura l’Università centroamericana di San Salvador retta dai gesuiti, a esprimere, in un editoriale (www.uca.edu.sv/noticias/editorial-3655, 15/5), una netta, clamorosa, presa di distanza dal modo in cui è stata organizzata la beatificazione: «Corriamo il pericolo di soffermarci solo su cosa celebriamo, dimenticandoci del perché». È positivo, spiega, che quasi tutti i settori della vita nazionale, compresi quelli che prima congiuravano contro di lui, si uniscano ora al giubilo di «un popolo che non ha atteso il riconoscimento ufficiale per vedere in mons. Romero un messaggero di Dio». Ma «celebrarlo spogliandolo del suo messaggio, del suo contesto storico e delle cause del suo assassinio snatura l’eredità del pastore»: «Riconoscere a parole il martire chiudendo gli occhi sulle ragioni che lo hanno condotto al martirio significa onorarlo male». D’altro canto, «è sufficiente scavare un po’ per rendersi conto che alcuni di quelli che ora esultano per la beatificazione di Romero intendono trasformarlo in una figura insipida», in nome della diplomazia e della riconciliazione. Quella riconciliazione che non può essere invocata «senza prima chiedere perdono per l’assassinio di Romero e di tanti altri salvadoregni innocenti».

Era da tempo, del resto, che Jon Sobrino, direttore del Centro Monsignor Romero della Uca, metteva in guardia contro il pericolo di beatificare un Romero «annacquato», fino a spingersi, alla vigilia della cerimonia, ad ammettere, in un colloquio con il giornalista Alver Metalli (Vatican Insider, 21/5), di non provare particolare interesse per la canonizzazione dell’arcivescovo, essendo questi già stato proclamato santo dai «nostri poveri», e avendo Ignacio Ellacuría già affermato tutto ciò che di più significativo poteva esser detto sull’arcivescovo, e cioè che «con monsignor Romero Dio è passato per El Salvador». «Va bene che lo beatifichino, non dico di no, ma – ha proseguito Sobrino – mi sarebbe piaciuto che fosse in un altro modo… e ancora non so cosa dirà il cardinale Angelo Amato dopodomani, non so, non so se quello che dirà mi convincerà o meno».

E se è difficile pensare che le frasi del card. Amato abbiano potuto convincerlo, hanno invece di certo convinto molti le riserve espresse dal teologo gesuita. A indicare il pericolo di un addomesticamento è, per esempio, anche Noi Siamo Chiesa, secondo cui «Romero fu segno di contraddizione e tale deve restare»: ribadendo le proprie perplessità nei confronti sia del senso teologico e pastorale del culto dei santi che delle procedure in uso, «spesso discutibili» – dalla canonizzazione di personaggi controversi come Escrivá De Balaguer o del tutto lontani dalla venerazione popolare a quella «di quasi tutti gli ultimi papi», diventata «quasi uno strumento per santificare lo stesso papato» –, Noi Siamo Chiesa ha manifestato la propria gioia per la beatificazione di mons. Romero, «simbolo planetario di una fede impegnata a difesa degli oppressi», ma anche espressione di tutto il martirologio latinoamericano dell’ultimo mezzo secolo, «composto di migliaia di suore, leader contadini, animatori di comunità, preti e vescovi uccisi da regimi che si pretendevano “cattolici” in nazioni “cattoliche”». Ma avverte: ora che è stato ufficialmente riconosciuto, Romero non deve diventare un “santino”, oggetto di una devozione tradizionale, con tanto di agiografia, reliquie da venerare, statue da erigere, vie e piazze a cui dare il suo nome, ma «deve rimanere nella Chiesa e nella società momento di contraddizione», e deve essere compreso a partire dal contesto storico in cui visse, in maniera da poter valutare al meglio le azioni di rottura a cui fu costretto. Spetta ai suoi amici in tutto il mondo, conclude Noi Siamo Chiesa, «il compito di evitare la sua imbalsamazione». E, cioè, evidenziare, come fa il cubano Iroel Sánchez sulla rivista digitale CubaHora (23/5), quanto Romero sia «un beato politicamente scorretto»: mai disposto a mettere sullo stesso piano, in nome di una falsa concordia, sfruttatori e sfruttati, carnefici e vittime; a condannare allo stesso modo, in nome di una falsa pace, esercito e guerriglia; a scambiare per persecuzione religiosa quella che era chiaramente una persecuzione di E, d’altro lato, sempre pronto a denunciare «il falso universalismo che si traduce sempre in connivenza con i potenti», «il falso pacifismo» e «i falsi paternalismi anche ecclesiali», difendendo l’attualità delle «terribili parole dei profeti di Israele»: «Esistono tra noi quelli che vendono il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali; quelli che ammassano violenza e saccheggio nei propri palazzi; quelli che schiacciano i poveri; quelli che preparano un regno di violenza sdraiati su letti avorio: quelli che uniscono casa a casa e sommano campo a campo fino a occupare tutto e restarsene soli nel Paese».