«Un padre non ha gradi». Dossier di Mosaico di pace sui cappellani militari

Luca Kocci
Adista n. 41, 23 novembre 2013

Il sistema dell’Ordinariato e dei cappellani militari «va completamente riveduto, aggiornato e corretto». Parola di generale. E non un generale qualsiasi, ma Fabio Mini, già capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e comandante della missione militare “di pace” in Kosovo, intervistato da don Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi), curatore, insieme a Vittoria Prisciandaro, del dossier di Mosaico di pace di novembre interamente dedicato ai cappellani militari.

«La figura del cappellano militare come parroco della caserma non è più attuale», spiega Mini: «In caserma non ci “vive” più nessuno, la vita di caserma non è più comunitaria» e «le cappelle sono vuote: non le frequentano più neppure i cappellani». E poi c’è la questione dell’Ordinariato militare come “Chiesa parallela” – organizzata non su base territoriale, come tutte le diocesi, ma funzionale – e dell’inquadramento dei cappellani all’interno della gerarchia militare, con i gradi, dal vescovo castrense, che è generale di corpo d’armata (mons. Santo Marcianò, appena nominato da papa Francesco ordinario militare per l’Italia, v. Adista Notizie n. 37/13), fino al cappellano semplice, che è un tenente.

«Perché bisogna trattare l’assistenza spirituale alle Forze armate come un problema separato da quello pastorale generale?», chiede Mini. «Cosa devono avere di più o di diverso i cappellani militari? Non sarebbe meglio che tutti i preti avessero la possibilità, una volta nella loro vita, di vedere da vicino e assistere questi cittadini in divisa così buffi e strani da rischiare la pelle per la comunità? Oggi, con il professionismo, le comunità militari tendono a diventare dei ghetti. I cappellani con le stellette ne fanno parte e anzi tendono a incancrenire la ghettizzazione. Abbiamo bisogno di pastori che portino nell’ambito militare le idee e le visioni diverse che si sviluppano nelle comunità civili. Invece di cappellani militari avremmo bisogno di preti di frontiera», dice Mini. Insomma si tratta, fra le righe, della storica proposta di Pax Christi, di smilitarizzare i cappellani militari e di affidare il servizio pastorale alle parrocchie nel cui territorio ricade la caserma.

Anche perché «il grado condiziona», spiega lo psichiatra Vittorino Andreoli, intervistato da Vittoria Prisciandaro. «Il sacerdote deve essere colui che aiuta la comunità e i suoi membri. Il grado pone la comunità in uno stato di soggezione. Esattamente come un caporale maggiore è in soggezione di fronte a un tenente, a un maresciallo. Figuriamoci di fronte a un generale di brigata! È quel segnale che mantiene a distanza, la distanza del grado, e non è certo segno di quel “chi è più grande tra voi sia come colui che serve”. Il tenente prete è un tenente e porta le stellette». E «questa cosa non è molto amata dai soldati», aggiunge Andreoli.

«Perché in fondo parlano con un superiore. Faccio un esempio: ciò che racconto al sacerdote tenente maggiore rimane tra me e lui o sto parlando con un superiore che serve l’organizzazione? Se lo incontro nei viali della caserma e sono giù di morale gli dico “Padre…” e non tenente! Un padre non ha gradi, ha l’autorevolezza che viene dalla relazione… il grado può essere un blocco. Anche perché il segreto di un’organizzazione militare c’è se sei in confessione, ma se si parla così, di vicende relative alle difficoltà della vita di caserma, quella chiacchiera può essere trasmessa e magari porre le persone che la raccontano in conflitto con altre».

Quelli di Mini e Andreoli non sono gli unici contributi dell’originale dossier di Mosaico di pace, che si sforza di trattare il tema con un punto di vista diverso da quello del tradizionale antimilitarismo, che si può dare per scontato. Paolo Naso, della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, affronta, anche storicamente, il tema dei pastori valdesi impegnati nell’assistenza spirituale ai soldati; il pastore luterano Rainer Schmid, spiega come sono inquadrati i cappellani militari in Germania; e il teologo Giannino Piana inserisce la figura del militare e del cappellano militare nella storia della Chiesa, dalla Chiesa delle origini in cui vigeva il rifiuto assoluto del servizio militare, alla dottrina della «guerra giusta» di sant’Agostino, fino alla condanna della irrazionalità della guerra (alienum a ratione) da parte di Giovanni XXIII.

Ma alla fine dell’excursus, la conclusione di Piana è chiara: esiste una «contraddizione stridente fra le stellette e la croce». Che va risolta con la smilitarizzazione dei cappellani. «La delega a sacerdoti diocesani di occuparsi dei militari presenti sul territorio – scrive Piana –, oltre a garantire il loro inserimento nell’ambito della Chiesa locale e a evitare il mantenimento dell’equivoco attuale, consentirebbe di rendere più limpida la presenza del sacerdote in mezzo ai giovani militari.

Il fatto che egli non appartenga alla loro istituzione, magari in posizione di vantaggio rispetto a molti di essi per titoli acquisiti, che non sussistano per lui possibilità di carriera all’interno del mondo militare e che non percepisca stipendi legati ai gradi militari sono altrettanti fattori che gli garantiscono libertà di movimento e rendono più efficace l’esercizio del ministero. La povertà della Chiesa, che costituisce il giusto assillo di papa Francesco, è anche rinuncia a ogni forma di potere, specialmente se ispirato a logiche mondane o modellato su di esse. Il “no” alla perpetuazione dell’attuale sistema dei cappellani militari non nasce dunque da ragioni politiche e tanto meno da preconcetti ideologici, ma risponde a una profonda esigenza di fedeltà alla causa del Vangelo».