Il Sinodo Valdese scrive a papa Francesco

www.nev.it

“Nella Sua richiesta di perdono cogliamo la chiara volontà di iniziare con la nostra Chiesa una storia nuova che ci consenta una testimonianza comune al nostro comune Signore Gesù Cristo”.

Torre Pellice (Torino), 24 agosto 2015 (SSSMV/06) – Il Sinodo metodista e valdese “riceve con profondo rispetto, e non senza commozione, la richiesta di perdono da Lei rivolta”. Così esordisce la lettera aperta indirizzata a papa Francesco, il cui testo è stato approvato questo pomeriggio dai 180 sinodali. La missiva, che verrà inviata dal presidente del seggio Marco Borno, è la risposta da parte del massimo organo decisionale delle chiese valdesi e metodiste alle parole con le quali il pontefice, lo scorso 22 giugno nella sua visita alla chiesa valdese di Torino, aveva chiesto, “da parte della chiesa cattolica, perdono per gli atteggiamenti e i comportamenti non cristiani, persino non umani che, nella storia, abbiamo avuto contro di voi”. Di seguito il testo integrale della missiva.

“Caro fratello in Cristo Gesù,

il Sinodo della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle Chiese metodiste e valdesi) riceve con profondo rispetto, e non senza commozione, la richiesta di perdono da Lei rivolta, a nome della sua Chiesa, per quelli che Lei ha definito «gli atteggiamenti non cristiani, persino non umani» assunti in passato nei confronti delle nostre madri e dei nostri padri nella fede evangelica.

Desideriamo in primo luogo unirci a Lei e alla Chiesa cattolica romana nella gratitudine a Dio, la cui fedeltà è più grande di ogni nostro peccato e le cui «compassioni non sono esaurite, ma si rinnovano ogni mattina» (Lamentazioni 3:22s.). Il dialogo fraterno che oggi conduciamo è dono della misericordia di Dio, che molte volte ha perdonato, e ancora perdona, la sua e la nostra Chiesa, invitandole al pentimento, alla conversione e a novità di vita, permettendo loro così di assumere ogni giorno di nuovo il compito di servirlo.

Accogliamo le Sue parole come ripudio non solo dalle tante iniquità compiute ma anche del modo di vivere la dottrina che le ha ispirate. Nella Sua richiesta di perdono cogliamo inoltre la chiara volontà di iniziare con la nostra Chiesa una storia nuova, diversa da quella che sta alle nostre spalle in vista di quella “diversità riconciliata” che ci consenta una testimonianza comune al nostro comune Signore Gesù Cristo. Le nostre Chiese sono disposte a cominciare a scrivere insieme questa storia, nuova anche per noi.

La nostra comune fede in Cristo ci rende fratelli nel Suo Nome, e questa fraternità noi già la sperimentiamo e viviamo in tante occasioni con sorelle e fratelli cattolici: è un grande dono che ci viene fatto e che speriamo possa essere condiviso da un numero crescente di membri delle due Chiese. Questa nuova situazione non ci autorizza però a sostituirci a quanti hanno pagato col sangue o con altri patimenti la loro testimonianza alla fede evangelica e perdonare al posto loro. La grazia di Dio, però, «è sovrabbondata, là dove il peccato è abbondato» (Romani 5,20), e questo noi crediamo e confessiamo, certi che Dio vorrà attuare questa sua parola anche nella costruzione di nuove relazioni tra le nostre Chiese, ispirata alla parola evangelica: “Ecco, io faccio ogni cosa nuova” (Apocalisse 21:5).

La ricordiamo, caro fratello Francesco, nell’intercessione e Le chiediamo di pregare per noi, invocando su di Lei, sul Suo servizio e sulla Sua chiesa, la benedizione del nostro Dio.

————————————————-

Lettera al papa: un western all’italiana?

Fulvio Ferrario
www.riforma.it

Avrebbe potuto avere come titolo: «Dio perdona, il Sinodo no». Ma chi legge senza pregiudizi la lettera aperta inviata dal Sinodo valdese al papa non ha dubbi sul reale significato

Il Sinodo ha risposto alla richiesta di perdono formulata da papa Francesco nell’ormai celebre incontro di Torino. Lo ha fatto con una lettera, da fratelli e sorelle a un fratello, ponendosi in tal modo sulla stessa lunghezza d’onda scelta dal pontefice. Sottolineare la novità di un simile scambio sarebbe, dopo tutte le parole spese finora, persino banale; molto meglio, esserne profondamente grati e rimboccarsi immediatamente le maniche per proseguire un cammino in corso da molto tempo, ma che certo assume ora uno slancio, almeno per alcuni aspetti, inatteso. Ricostruiamo alcuni elementi del processo che lo ha determinato e del dibattito che lo ha seguito.

Un dibattito costruttivo. La discussione sinodale è stata orientata dalla bozza di quella che poi sarebbe stata la lettera, presentata dalla commissione d’esame. La grande maggioranza degli interventi ha colto lo spirito del testo: le parole del pontefice segnano, con ogni chiarezza e senza giri di parole, il ripudio di un passato atroce e l’inizio di un cammino nuovo. La risposta esprime la volontà di percorrere assieme questo itinerario, nella forza del perdono che Dio rivolge alla chiesa di Roma e, per quanto la riguarda, alla nostra. Qualcuno ha avanzato perplessità: non tanto sulle parole del papa, naturalmente, bensì a proposito di un possibile rischio di assimilazione, di smarrimento del profilo caratteristico di una chiesa protestante di fronte alla figura centrale della gerarchia romana. L’approvazione sinodale, a grandissima maggioranza, di un documento quasi identico alla bozza originaria, non intende rimuovere l’esigenza di un ecumenismo capace di distinguere l’entusiasmo dall’ingenuità. Piuttosto, manifesta la convinzione che l’unità che cerchiamo è tra chiese realmente diverse, come il protestantesimo ripete da sempre; la fede evangelica sa che, come qualcuno ha ritenuto di dover precisare, «il papa è pur sempre il papa»; sa, anche, che egli è cattolico-romano e non gli chiede di diventare protestante. Essa comprende, invece, che il massimo esponente della gerarchia cattolica si domanda dove possiamo andare insieme e raccoglie la sfida.

La chiesa cattolica non è una nemica. Nel corso del dibattito, è stato sottolineato che il compito che ci poniamo implica l’abbandono dell’idea che vede nell’altra chiesa il nemico. Per questo, a dire il vero, non ci sarebbe bisogno delle parole del papa, l’essenziale è già stato autorevolmente detto da qualcun altro; e non è da oggi che l’immaginario guerresco è stato eliminato dal dialogo tra le chiese. Va detto, però, che la contrapposizione al cattolicesimo ha lungamente costituito uno spazio entro il quale si sono modellati il pensiero e la prassi del protestantesimo italiano, sempre minoritario, prima perseguitato, poi discriminato, in seguito emarginato e tutt’ora piuttosto isolato nel paese. In passato, si è trattato, semplicemente, di un’ovvia necessità, imposta dai fatti. Se però qualcuno pensa di poter continuare a giocare soltanto di rimessa, egli o ella è in ritardo non solo sulla storia ma, soprattutto, sull’evangelo. La preoccupazione di veder scolorire le differenze (e anche le alternative) è quasi umoristica: se è per questo, ne rimangono anche troppe. Lo sa il papa, che lo ha anche detto, lo sappiamo noi. Si tratta semmai di chiarire se tali differenze impediscono un dialogo tra fratelli e sorelle nella fede, con tutto quanto queste parole, delle quali a volte non si misura la portata, implicano. Non sono pochi, in certi ambienti cattolici, ad essere scettici su questo; non mi pare il caso che la chiesa evangelica fornisca munizioni a quanti sono più papisti del papa.

La frase incriminata. «Questa nuova situazione non ci autorizza a sostituirci a quanti hanno pagato col sangue o con altri patimenti la loro testimonianza alla fede evangelica e perdonare al posto loro»: alcuni giornali hanno costruito su questa frase la trama di una specie di western all’italiana, che avrebbe potuto avere come titolo: Dio perdona, il Sinodo no. Chi legge senza pregiudizi il testo non può avere dubbi sul reale significato: il Sinodo non ha l’autorità del martire, non siede su uno scranno di giudice, dall’alto del quale far cadere parole a buon mercato sul sangue delle vittime e sull’umiltà di chi chiede perdono. Se il papa chiede perdono, con grande coraggio, a nome della sua chiesa, noi non possiamo identificarci direttamente con i perseguitati. Accogliere la richiesta di perdono significa, invece, aprire una nuova pagina, ponendoci insieme alle altre chiese nel segno della grazia di Dio. Tra gli altri, l’Avvenire, Enzo Bianchi su Repubblica, ma soprattutto il vescovo di Pinerolo, Piergiorgio De Bernardi, sull’Osservatore Romano, hanno colto con precisione l’intenzione del Sinodo.

I titoli che «sparavano» l’equivoco, però, hanno richiesto precisazioni, il che, di solito, non è indice di una comunicazione chiara e incisiva. Per diverse ragioni, chi scrive non è il più adatto a valutare se il punto indicato richiedesse una formulazione diversa. Una cosa è certa: l’assemblea di Torre Pellice ha inteso in primo luogo parlare al fratello Francesco, di fronte a Dio e su questo ha investito la propria attenzione. Non è detto che, se per un attimo ci si è dimenticati di possibili strumentalizzazioni giornalistiche, ciò sia solo un male. Potrebbe anche essere dipeso dalla concentrazione su ciò che conta realmente.

E ora? Il Sinodo ha anche ricevuto la visita del Presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della Conferenza episcopale italiana, mons. Bruno Forte. Egli non ha pronunciato un semplice saluto, ma un denso intervento sul significato della concezione della chiesa nel cattolicesimo e nel protestantesimo. Non è questo il luogo per discutere le tesi di Forte, che riprendono ampiamente quelle più volte espresse dal suo antico maestro Walter Kasper. Il suo discorso, in ogni caso, si inserisce nel solco tracciato dall’incontro di Torino e aiuta a superare alcuni equivoci: ciò non significa censurare i problemi, bensì eliminare quelli falsi per poter affrontare i temi veri.

Che cosa è cambiato per il dialogo ecumenico in Italia, in questa estate così intensa? I nodi teologici restano identici, né potrebbe essere altrimenti. Certamente è cambiato il clima. Forse, in questa nuova atmosfera, presentare il profilo del cristianesimo evangelico nella sua inconfondibile peculiarità può richiedere uno sforzo ulteriore: quello di lasciarsi definitivamente (di nuovo: non iniziamo oggi!) alle spalle la rendita di posizione, peraltro un po’ asfittica, che può derivare da accenti prevalentemente polemici, per presentare, in positivo, la novità liberante del messaggio evangelico, come la Riforma lo ha riscoperto. E più difficile? Se lo è, si tratta della difficoltà che abbiamo sempre desiderato poter affrontare.

(07.09.2015)

————————————————-

Il complicato mestiere della comunicazione religiosa

Giovanni Ferrò
www.riforma.it

“Non dite a mia madre che faccio il giornalista… Lei mi crede pianista in un bordello”. La versione originale, di Jacques Séguéla, era con “il pubblicitario”, ma mi viene spesso voglia di adattarlo al mestiere di chi – come me – si occupa di informazione. Mi è successo di nuovo, per l’ennesima volta, dopo aver seguito la vicenda in qualche modo tragicomica della risposta del Sinodo valdese alla richiesta di perdono di papa Francesco. Come tutti i frequentatori di questo sito penso sappiano, un autorevole quotidiano (cartaceo e on line) ha completamente capovolto il senso del messaggio del Sinodo: invece di dare giustamente rilievo al desiderio della Chiesa valdese di inaugurare, d’ora in avanti, una “storia nuova” con la Chiesa cattolica, ha messo in primo piano ciò che nel messaggio era un inciso marginale – peraltro tecnicamente ineccepibile – che diceva, in pratica, che noi non possiamo perdonare le offese che altri hanno subito.

Lo stravolgimento del senso della notizia (ruvida chiusura all’offerta del papa, invece che – come è stato in verità – massima apertura) ha dato avvio, come spesso capita in questi casi, a uno stralunato gioco del telefono senza fili, in cui anche da parte cattolica qualcuno ha reagito malamente di fronte all’ipotetico (e falso) arroccamento valdese. Se non fosse stato un tema serio, sarebbe sembrato uno sketch dei tre vecchietti interpretati da Aldo, Giovanni e Giacomo.

Come e perché è successo questo ambaradam? Di chi è la colpa? Si è trattato di una scelta voluta, quasi un complotto ideologico? O è stata solo superficialità e scarsa competenza? Dall’alto delle scemenze che, nella mia carriera di giornalista, mi è capitato di scrivere, vorrei dire che alla fin fine non importa: di sicuro è stato un errore, come ne capitano a tutti, e non una volta sola nella vita purtroppo. E chi non ha mai peccato – in qualunque mestiere – scagli la prima pietra.

La mia non è una facile auto-assoluzione della categoria dei giornalisti, tutt’altro. Varrebbe, anzi, la pena aprire un ampio dibattito sulle difficili sorti dell’informazione religiosa (e dell’informazione tout court) in Italia, ma non è questo il luogo e non c’è neppure lo spazio. Semmai, mi pare interessante rilevare che il mondo valdese, pur avendo precisato e corretto, non abbia drammatizzato. D’altronde temo non sia stato raro, nella storia della minoranza protestante, il fatto di aver subito una presentazione erronea o totalmente stravolta. E oggi, nell’era della comunicazione globale, tocca metterlo in conto sempre di più. Come direbbe Nino Manfredi, “ah more’, la vita è ‘na lotta”. Un buon insegnamento ecumenico, anche per la Chiesa cattolica.

(26.08.2015)