Come il “pubblico” può e deve funzionare

Mauro Magini

Avevo promesso ad alcuni amici che, a bocce ferme e a referendum vinti (non ho mai dubitato che si sarebbe raggiunto il quorum), avrei analizzato alcune posizioni ragionevoli di chi è a favore delle privatizzazioni. Mi riferisco in particolare a quel luogo comune secondo il quale “pubblico” è sinonimo di “carrozzone clientelare” che non funziona quasi mai, dove i partiti fanno il bello e il cattivo tempo e dove l’inefficienza e la corruzione sono di casa. C’è molta verità in questa posizione; ma la strada maestra, a mio avviso, NON è privatizzare, sperando così di eliminare i vari carrozzoni e mettere tutto sotto la striglia stringente dell’efficiente mitico “privato” ciò che DEVE funzionare. La via maestra è andare alle radici del problema e lì affrontare e risolvere quello che non và.

Per spiegarmi non posso che partire dalla mia passata vita professionale. Ho lavorato trentasette anni in un ente pubblico di ricerca (CNEN poi ENEA) e la mia esperienza mi dice che per fare carriera è molto più importante dedicarsi al lobbismo di qualsiasi tipo (politico, sindacale, familistico….) piuttosto che lavorare. Se sei molto bravo (e, senza false modestie, lo ero) riesci comunque ad aprirti un varco nella giungla dei lottizzati ma non potrai mai arrivare ai posti chiave dove il prerequisito è “l’affidabilità” che significa essere disponibili, dietro comando, ad eseguire l’ordine che viene dall’alto quale che si sia. In altri termini devi essere disposto a saper corrompere e ad essere corrotto.

In una situazione così data, il personale subalterno che non può accedere ad alti livelli, ma che non ha l’anello al naso, è perfettamente cosciente del perché il suo capo è arrivato dove è arrivato e, per parte sua, fa quello che gli pare (secondo lavoro, giochi vari, bel far nulla….) con la chiara coscienza che chi gli è sopra non ha titoli ne professionali né, ancor meno, etici, per imporgli alcunché. La conseguenza finale è che il sistema non funziona e l’attivismo della minoranza onesta non può invertire il trend complessivo.

Così avviene la selezione della classe dirigente nel nostro paese: è quella che io chiamo la “perversa selezione alla rovescia” in cui merito e laboriosità sono neglette e ciò che conta è l“appartenenza”. Il nostro è un Paese dove il merito non conta, conta l’appartenenza. E’ chiaro quindi perché il “pubblico” non funziona. Ai vertici degli enti pubblici, delle università (leggiamo sui giornali di baroni in cattedra coi “loro cari”, figli, mogli, amanti che occupano intere facoltà), delle pubbliche amministrazioni, della RAI (non parliamone della RAI per non amareggiarci troppo!), nei posti che contano si trova gente che deve innanzi tutto essere “affidabile” e cioè selezionata nel modo di cui sopra e quindi incompetenza e corruzione vanno a braccetto.

Può funzionare il “pubblico” così? No, non può funzionare. E allora privatizziamo? Assolutamente no; è un semplice palliativo che sposta il problema al “privato” dove allignano logiche non molto diverse e dove la capacità di “corrompere” chi di dovere nel “pubblico” è ampiamente provata. Ma perché Benetton deve fare profitti con le autostrade pagate dalle tasse di tutti? Faccia maglioni per cortesia e non lucri sulle rendite di posizione sulle quali deve aver un guadagno di rientro il pubblico. No, il problema va affrontato in radice , va combattuta la perversa selezione alla rovescia premiando la competenza e la laboriosità. Su questi terreni la sinistra non si è mai affatto distinta dalla destra.

Se davvero si vuole che il pubblico funzioni, come possibile, allora questo è il vero terreno sul quale battersi perché le cose possano cambiare e non ricorrere alla scorciatoia delle privatizzazioni che, nel nostro Paese sono sempre state all’insegna del “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”. Alla faccia del capitalismo!
Pace e bene.