Essere «matti» della Resistenza

Bruna Peyrot
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La Resistenza, esperienza reale per i protagonisti che l’hanno vissuta, ha ispirato il dispiegarsi del Novecento con i valori di cui è stata portatrice. Tuttavia, nel tempo, è diventata la trasmissione di un’idea che ha bisogno di essere scavata nei suoi significati più profondi per capire com’è stata ereditata dalle generazioni successive. La trasmissione intergenerazionale avviene in parte in modo esplicito, «ufficiale» (commemorazioni, didattica nelle scuole, informazione dai mass-media…) o familiare, legato al patrimonio genealogico della parentela (aneddoti, esempi, flash emblematici…). In parte, inoltre, ciò che un soggetto impara dagli adulti «passa» in modo inconsapevole, attraverso allusioni, silenzi, gesti. Con i genitori biologici entrano in noi anche i loro mondi affettivi e psichici, con le loro altalene di vittorie e sconfitte che vanno a comporre un vero e proprio Dna culturale che rende predisposti a modi di pensare e scelte. Se non si è attenti a questi processi, si può diventare «candele della memoria», come afferma Dina Wardi, psicoanalista israeliana che cura i figli della Shoà, spesso portatori di progetti di vita che non sono i loro, bensì dei parenti scomparsi nelle camere a gas.

La Resistenza, divenuta un’«idea» per chi non vi ha partecipato, può diventare un imperativo difficile da adempiere, foriero d’inadeguatezze e facili ideologismi, se non si affronta il modo con il quale si è ricevuta, di solito legato a immagini che portiamo in fondo al cuore, scene, racconti, gesti o parole importanti che noi evochiamo in momenti difficili. Nel mio caso, per esempio, un’immagine fondatrice dello spirito della Resistenza sono state le foto del libro Il flagello della svastica di Lord Russel, sulle quali sorprendevo spesso lo sguardo di mio padre, comandante partigiano ad Asti. Non solo, a queste si sono sovrapposte, in sequenza, le incisioni di Jean Léger, osservate durante gli anni di catechismo nella saletta della casa pastorale, specie la giovinetta che si lancia dalla roccia piuttosto che cadere in mano ai suoi persecutori.

Ma un’immagine tira l’altra: subito penso a Gianavello con la sua indomita, appunto, Resistenza. E in questo percorso di riconoscimento delle voci dei miei «antenati interiori», non sono stata per nulla originale. A tutti è possibile, anzi auspicabile, che succeda questo emergere di consapevolezze, perché le culture in cui siamo immersi sono una forte riserva di forza. Capita così in ogni parte del mondo, solo con nomi e storie diverse, là dove un popolo lotta per difendere libertà e demodiversità. Ereditare lo spirito della Resistenza significa allora farne una risonanza etica, recuperandone la densa stratificazione dentro di noi. Significa opporre alla «banalità del male», basata sul principio di obbedienza a ordini «superiori», lo spirito del Matto (che mio padre teneva in tasca mentre assaltava i treni per liberare i deportati), il folle dei tarocchi marsigliesi, che conserva nella sua bisaccia le tre «t» della missione genealogica: trasmettere, tramandare e trasgredire.

Trasmettere che cosa? Lo spirito di resistenza da rinnovare in ogni presente. Tramandare che cosa? Racconti che interrogano le coscienze, come quello di Ettore Serafino, comandante partigiano in val Chisone, sul Natale del 1944 con il tedesco «nemico ritrovato» nel tempio di Pomaretto, per narrare, con il conflitto, anche l’attimo che può riscattare – riconciliare? – il senso profondo dell’umano. Infine, trasgredire come? Trasgredire significa «andare oltre», fare un pezzo di strada in più. I partigiani hanno voluto essere liberi, noi oggi siamo liberi di essere?